Lauro
è una delle più antiche e importanti frazioni del Comune di Sessa
Aurunca
(Ce), situato a nord della Campania.
Il
paese è collocato tra la pianura del Garigliano ed il Monte S.
Croce, in zona semicollinare a metri 60 di altitudine, gode perciò
di clima mite d’inverno e non afoso d’estate.
Sul
finire del XIV secolo Lauro
si staccò dal feudo di Montecassino e passò sotto il feudo dei
duchi di Marzano di Sessa.
Le
origini leggendarie, si rifanno ad Ausonio, figlio di Ulisse e di
Calipso, che navigando il Garigliano, in lontananza scorse un’ampia
macchia verde consistente in piante di alloro, recatovisi, lo
consacrò al dio Apollo, perciò “LUCUS
LAURI”
(Bosco
Sacro
di Alloro).
La
storia riporta che “prepositura
cassinese”
nel 1032, il duca di Sessa, Giacomo Marzano, grazie all’amicizia
che lo legava al re Ladislao e alla regina Margherita, pur contro la
volontà del Pontefice del tempo e dell’Abate di Montecassino,
Pietro de Tartaris, riuscì a spogliare Lauro della detta
prepositura. Era “Terziere”
dell’Università di Sessa Aurunca.
Nel
1800 fu interessato fortemente dal fenomeno del Brigantaggio, tanto
che, nell’attuale zona detta “Soveri”,
gli antichi lauresi ancora raccontano della presenza di basi
logistiche dei briganti, poste in rifugi sotterranei. Fu anche la
roccaforte della Carboneria per questo molto nutrita era la lista
degli aderenti alla “vendita
carbonara”
ivi residente.
Quasi
tutta la zona di Lauro
è ricca di sottosuolo, la sua roccia tufacea, serve per malte
idrauliche nelle costruzioni edili. Per tale ragione, molte sono
state le cave aperte di pregiata pozzolana, fin dai tempi molto
remoti, specialmente quelle aperte in seguito per le moderne
ricostruzioni dell’ultimo dopoguerra. Le stesse abitazioni del
luogo sono ricche di sotterranei, gallerie e pozzi. Alcune di queste
gallerie sono a carattere catacombale, e possono essere servite come
rifugio e nascondiglio degli abitanti nel corso delle irruzioni
brigantesche, specialmente di quelle dei Saraceni e, infine, durante
le razzie nemiche e i bombardamenti dell’ultima guerra.
Nella
zona delle circostanti cave di pozzolana, ebbero origine le prime
abitazioni del paese di Lauro,
e quindi, anche la prima Chiesa Parrocchiale fu dagli stessi antichi
abitanti, costruita nelle immediate adiacenze di una grande cava,
dedicata alla Madonna
della Cava.
Si deve ben riconoscere in questo popolo, una devozione veramente
atavica e fervida verso la Vergine SS, giacché per diversi secoli
l’ha sempre invocata col bel titolo di Santa
Maria della Cava,
poi commutato con quello di Santa
Maria dei Pozzi.
Questa sostituzione fu dalla stessa popolazione laurese decisa
unanimemente, a perpetuo ricordo di un avvenimento prodigioso
avvenuto nel XVI secolo, presso un pozzo profondo, a una giovinetta
sordomuta di nome Lucia,
intenta a recuperare la capretta smarritole durante il quotidiano
pascolo. L’apparizione della Madonna, in un tardo pomeriggio,
consentì alla fanciulla, di nome Lucia,
di acquistare la favella di cui si servì per informare il parroco e
i notabili del paese affinché costruissero una cappella a Lei
dedicata e che fu poi denominata “Maria
SS.
dei
Pozzi”.
Oggi è un rinomato Santuario,
meta continua di pellegrinaggio.
L’Economia
è basata su un’agricoltura a conduzione non tradizionale
(pescheti,
oliveti
etc.) sull’artigianato (lavorazione
alluminio anodizzato, imprese edili termoidrauliche, lavorazione
della
pelle
etc.) molti gli addetti nell’industria, commercio e servizi rari.
La
Gastronomia
laurese è nota per i pranzi lauti e succulenti che le brave massaie,
ivi residenti, riescono a preparare.
Antipasti
a base di “Presùtto“
“Saocìccia“
“Sopressàta”
“Alici
salate,
Giardiniera
e Aorìve
all’acqua”.
I
primi piatti - “Maccarùni
re casa”
“Maccarùni
a’ la zita”
“Strangolaprièvoti”
I
secondi piatti - “Raù”
“Pollàstri
ruspanti”
“àini
e Caprìtti”.
Pasqua
con la “Pastìera
re risi e ri Còcheri re pane co’ gl’Uòvo”.
La
Festa di Maggio con la “Pizza
Roce”
e la “Pizza
a Pasta Frolla”.
La
Mietitura e la Semina con le “Cazzabbòttole”.
San
Martino co’ ro “Migliaccio”
Natale
co’
ri “Strùffoli
e gl’Aociàti”.
S.
Silvestro co’
ri “Crispìegli”
Feste
& Tradizioni
13
dicembre, festa di Santa
Lucia,
con solenne processione per le vie del paese.
17
gennaio, festa di Sant’Antonio
Abate.
E’ caratteristica per l’accensione dei Falò in vari punti del
paese, con Fuochi Pirotecnici e la degustazione di piatti prettamente
locali e del buon vino nostrano.
2°
domenica di maggio, festeggiamenti in onore di Maria
SS. dei Pozzi,
patrona di Lauro. Cinque giorni consecutivi di Festa, per merito del
Comitato
Festa.
C’è la luminaria in tutto il paese; due bande di Musica; la
Fiaccolata fino al Santuario; la solenne Processione della Madonna
per le vie del paese; Panegirico del Vescovo al Santuario; la Corona
ai Caduti; il Concerto Musicale con un noto artista e chiusura della
festa con i Fuochi Pirotecnici.
2
luglio,
festa in onore di Maria
SS. dei Pozzi.
E’ il giorno in cui la Madonna apparve alla pastorella sordomuta
Lucia. Anticamente la festa si svolgeva in questo periodo, poi
anticipata a maggio per motivi ambientali, perché a luglio c’era
il rischio d’incendi nelle campagne, causate dalle bombe sparate
per aria.
29
settembre, festa di San
Michele Arcangelo.
Solenne funzione Eucaristica nella monumentale e suddetta chiesa, cui
segue il sacro rito della processione per le vie del paese. La sera i
festeggiamenti terminano con esposizioni di mostra prettamente
locale, compreso la gustosa arte culinaria con ampi assaggi. Negli
anni addietro a piazza Santa Lucia si proiettavano due film
all’aperto.
Anticamente,
nell’occasione della festa, era usanza fare la “Fiera
degli Animali”
dove i proprietari lauresi e quelli dei paesi limitrofi esponevano la
loro pregiata merce per venderla.
Manifestazioni
Varie
Carnevale
Laurese
con
caratteristica sfilata in costume per le vie del paese, seguito da
una Recita Teatrale in piazza Luigi
Toro.
L’Estate
Laurese si
svolge in piazza Luigi
Toro,
organizzato dalla Pro
Loco,
con “Le
Lauresiade”
il “Cantainsieme”
il “Festival
Internazionale del Folklore”
la “Sagra
re
ri
Strangolaprìevoti”
“Liscio
in piazza”
“Spettacoli
musicali e varietà”
Confraternita
“MARIA
SS. DELLE GRAZIE”
L'amore,
l'affetto e la fervida fede verso Santa
Maria
de' Pozzi
di
Lauro
hanno sicuramente fatto scaturire nella mente di alcuni predecessori
lauresi l'idea di costituire, in onore della Madre Celeste, la
Confraternita
“Maria
SS. delle Grazie”.
Molto
difficile è descrivere le notizie storiche del sodalizio, ci
atteniamo ai verbali dei registri che sono stati tramandati da
un'amministrazione all'altra.
La
prima comunicazione per la costituzione della Confraternita
fu inviata al Canonico Cresce in data 10 gennaio 1927. In quel
periodo la frazione Lauro
faceva parte della provincia di Napoli.
La
Confraternita
Maria SS. delle Grazie ebbe come primo Priore
il Sig. Ciccaglione
Giuseppe,
vice Priore il Sig. D'Angelo
Bartolomeo,
segretario il Sig. Sciarretta
Michele,
cassiere il Sig. Di
Tuccìo Francescantonio,
revisore dei conti i sigg. Russo
Antonio
e Coìro
Giovanni,
maestro dei novizi il Sig. Ciccaglione
Sebastio.
I
Confratelli: Corso
Paolo,
Casale
Luca,
Casale
Felice,
Casadoro
Carmine,
Cicoli
Federico,
Festa
Bartolomeo,
Gagliardi
Raffaele,
Ferraiuolo
Vincenzo,
Casale
Vincenzo,
(sacrista), Picano
Giuseppe,
Abbronzino
Erasmo,
San
Pietro Giuseppe,
Mariniello
Eleuterio.
La
Confraternita
Maria
SS. delle Grazie,
svolge azione pastorale, in collaborazione col parroco, potenziando
il suo impegno anche a livello sociale, scoprendo i valori culturali
e religiosi, e le radici storiche per cui nacque.
Il
vestiario si compone di un camice, cappuccio e guanti di colore
bianco, di un cinto e una moietta verde (molto
probabilmente i promotori, hanno ritenuto opportuno
rifarsi
alle vesti della Madonna dal manto e dal cinto verde).
Il
giorno 12 febbraio 1993 è deceduto il primo socio dei fondatori,
sig. San
Pietro
Giuseppe,
e in tale giorno si celebra ogni anno una Messa in suffragio di tutti
i soci deceduti.
Alfredo
Russo
LA
FONTANA VECCHIA
La Fontana Vecchia è una vera e propria sorgente, meglio conosciuta dai locali come la “Fontana Vèccia”. Si trova a due chilometri a sud dal paese, a poche centinaia di metri dalla monumentale Chiesa di Sant’Angelo, dedicata a San Michele Arcangelo, ed è immersa in una folta e lussureggiante campagna.
La
Fontana
Vecchia
di
Lauro
rinasce a nuova vita grazie alle generose offerte dei cittadini
lauresi. L'origine di questa fontana si perde nel tempo e da sempre è
stata generosa fornitrice di acqua potatile a tutto il popolo.
La
provenienza di quest'acqua è sconosciuta ma la sua purezza e
freschezza fanno supporre un suo lungo cammino sotterraneo. La sua
prima sistemazione, secondo alcuni anziani del luogo, potrebbe
risalire a circa tre secoli fa.
Prima della seconda
guerra mondiale l'acqua era attinta direttamente alla fonte,
immergendovi le cosiddette “Cannàte”
e "Cannetòzze".
Successivamente fu
installata una pompa a mano e l'acqua venne confluita verso i
lavatoi, dove le donne lavavano i panni, e verso un pilone dove
venivano abbeverati gli animali.
Nel 1944 le forze di
occupazione murarono la parte frontale della fontana e attraverso due
condotte fecero scorrere l’acqua in una modica vasca.
L'ultima pulitura,
delle grandissime vasche interne, avvenne nel 1968 e nell'ultimo
decennio la fontana era stata quasi del tutto dimenticata dal popolo
laurese.
Il
5 settembre 1993, presso la Fontana ripulita, si è tenuta una
piccola festa organizzata dalle ACLI
di Lauro, con sfilata di persone anche in costume di Pacchiana
e con l'esibizione del Gruppo
Folk Campagnolo Laurese
del
Maestro Armando
Coiro,
alla Fisarmonica, e dei suoi amici, Angelo
Del Mastro
al Putipù, Eleuterio
Mariniello
al Tamburello & Cantante solista, Giuseppe
Picano
al Tamburo battente, Antonio
Simoniello
alle Nacchere & Cantante solista, Tullio
Del Mastro
alla Fisarmonica, Ivano
Ciappino
allo strumento Cubano.
Nel corso della
manifestazione il Gruppo ha fatto rivivere le vecchie melodie
lauresi, quali: La
Lauresella,
Ro
Spingolone,
A
ro Rivo,
Ro
Vicinato re le Belle,
etc.
Questa nostra cara e
vecchia Fontana è bella, e allegra scorre l'acqua. Ma è ancora più
fantastico vedere, specialmente all'imbrunire, masse di persone che,
portando in testa l'Anca,
le Cannàte
e le Cannetòzze,
vanno ad attingere acqua alla Fontana Vecchia, ricordando i tempi in
cui i nostri antenati, dopo una lunga giornata di lavoro, a schiera
si recavano alla fonte per attingere la fresca acqua, raccontandosi i
fatti della giornata: e sembrava quasi ogni dì una festa!
Alfredo
Russo
Ro
Mulino Stregato
La
macchia più imponente e famosa di Lauro
è chiamata Ruti,
a ovest del paese, anticamente venerato come un luogo di culto e di
sacrifici umani. C’è anche un antico mulino, oggi diroccato, su
cui si tramanda una terribile leggenda. Narra che una decrepita
Strega
appaia nello spiazzo del mulino, presso un vorticoso torrente, con
una sfera di vetro in mano. Chiunque la vede, passando di lì, avrà
i giorni contati, perché la Morte
se lo porterà via allo scoccare del terzo giorno e la sua anima
resterà imprigionata nel mulino, insieme a tanti altri sventurati.
Nel corso degli anni, le persone che erano passate in quel punto
preciso, sparirono nel nulla, di loro si era persa ogni traccia e
ricordo. C’è una filastrocca che la Strega
reciterebbe a chi ha la sfortuna di vederla. E’ stata dettata da
una donna a un amico. Costei asserì di averla sentita cantilenare
dalla Strega
con voce stridula, poche ore prima. Tre giorni dopo anche lei
disparve nel nulla.
[Chiunque
osi sfidare i Ruti e si trovasse a passare dinanzi alle mie macerie,
se
avrà la sfortuna di vedermi, vivrà tre giorni ancora e poi morrà.
Si
sentirà il rintocco di una campana allo scoccare della mezzanotte
e
l’anima del malcapitato sarà imprigionata nel mio mulino]
Da molti anni,
ormai, non passa più nessuno davanti al mulino diroccato, per paura
di vedere la Strega.
I pastori, un tempo annidati ai Ruti,
sono andati altrove a vivere e a pascolare il loro gregge.
Negli ultimi anni si
vociferava che due ragazzi erano misteriosamente scomparsi dopo
essere passati di lì, armati di coraggio e d’incredulità. Le
autorità non avevano nessun indizio su cui aggrapparsi per
intraprendere un’indagine mirata, la loro conclusione fu che quei
due ragazzi erano semplicemente spariti nel nulla, proprio come
sovente succede nel resto del mondo. In paese, però, erano tutti
convinti che quei due ragazzi fossero stati catturati dalla Strega
dei Ruti.
Il citato Mulino
diroccato dista tre chilometri dal centro del paese, esattamente da
piazza Maio,
anticamente questo esiguo spiazzo era il fulcro dell’intero paese,
dove si svolgevano tutti gli eventi commemorativi e non, compreso la
festa annuale di maggio, dedicata alla Madonna
delle Grazie,
sotto il titolo dei Pozzi,
patrona del paese.
Tratto
dal libro: “Il
Buio oltre la Luce”
di Franco
Sollyman
Questo
Mulino,
meglio conosciuto dagli antichi abitanti lauresi come: ro
Mulinièglio
re
ro Ponte,
appare, oggi, come una buia e diroccata grotta, dimora ideale per i
pipistrelli, confinata a sud est del paese, in una macchia selvaggia.
Un tempo era un rinomato e roccioso Mulino,
assai frequentato dai paesani e dai paesi limitrofi, in auge fino ai
primi anni cinquanta. Rialzato sopra di esso, c’era una modica
stanza, oggi diroccata, con un camino a destra, di fianco
all’entrata. Adibita come abitazione per i proprietari locali, i
coniugi Corvese.
Ben nascosto dalle mire dei soldati tedeschi, nell’ultima guerra.
Il Mulino
fu edificato di proposito nella macchia, arroccato in una selva
oscura, per evitare di essere scoperti dalle truppe tedesche, e si
lavorava soltanto di notte perché era l’unico modo per non farsi
sorprendere. Era un luogo inaccessibile a chi non conoscesse il
luogo, poiché rischiava di perdersi.
Il
Mulino
si erge maestoso in altura. Il modico spiazzo davanti, ora quasi del
tutto sprofondato, un tempo era ben saldo, con un piccolo gorgo a una
decina di metri più avanti la quale termina un paio di metri in giù,
sotto di cui scorreva un fluente torrente, al quale si eccedeva con
una scala a pioli; oggi vi scorre un rivolo d’acqua.
Presenta la tipica
forma di una grotta, scavata nella roccia con sudore e sangue, con un
arco di pietra davanti. L’interno appare convesso. All’entrata
c’è un vano a destra. Quattro metri più avanti c’è un secondo
arco, oltre il quale vi sono due vani laterali più grandi, quello a
sinistra era adibito a ripostiglio, dove erano accantonati i sacchi
di grano, pronti per essere lavorati. In fondo, c’era un fondale
quadrato su cui poggiava una lastra di pietra con un foro al centro,
dentro di cui era infissa un’asta di legno. Non molto distante dal
mulino c’è un’antica cascata, utile allora per far funzionare il
Mulino; scorre attraverso un alto muro di tufo, un tempo fluente e
oggi ridotto a un rivolo.
Tratto
dal libro: “Il
Buio oltre la Luce”
di Franco
Sollyman
II
pittore Luigi
Toro
nacque a Lauro, villaggio di Sessa Aurunca, nel 1836. Come tutti gli
artisti nati, mostrò fin da bambino grande amore all'arte, cui poté
liberamente dedicarsi, appartenendo a cospicua famiglia che di lui
secondava i desiderii. Tardi quindi uscì il Toro dal dilettantismo:
quando cioè, non più giovanissimo, ebbe tregua dalle imprese
patriottiche, durante le quali, nei viaggi, nelle peregrinazioni,
nella vita movimentata e di cimenti, aveva sentito svilupparsi in lui
il senso estetico e creativo in visioni e concezioni epiche, che
dovevan poi trovare in Luigi Toro un appassionato ed ardente
rievocatore. Giacché, prima d'esser pittore, di dedicarsi cioè
interamente e seriamente all'arte, il Toro fu patriota e soldato.
Trovavasi nel '59 in viaggio d'istruzione a Parigi quando
sopravvennero gli avvenimenti che determinarono le guerre
dell'Indipendenza. Arruolatosi nei Cacciatori delle Alpi e passato,
l'anno seguente, a far parte della spedizione Cosenz, fu poi, col
grado di sergente, tra le Guide di Garibaldi, ricevendo, da questi,
speciali e delicati incarichi, come rilevasi da una autografo del
Generale, datato da Maddaloni il 20 settembre 1860 durante il suo
soggiorno a Palermo, Garibaldi lo volle presso di sé, affidandogli
anche questa volta speciali missioni. Nella battaglia del I ottobre,
ai Ponti della Valle, s'ebbe da Nino Bixio le spalline da ufficiale.
Rivestì indi il grado di maggiore della Guardia Nazionale,
efficacemente contribuendo alla repressione del brigantaggio, che, in
quel fosco periodo che va dal '63 al '67, infestava le provincie
meridionali e l'agro Sessano in ispecie, nel quale, favorite da non
pochi manutengoli locali, operavano le famigerate bande di Fuoco,
Pace e Guerra: triste triade le cui gesta, a risentirle, fan
rabbrividire di raccapriccio. E qualche lettera del generale Marseli!
- altra gloria di Terra di Lavoro - attesta quale fiducia fosse
riposta, in quell'occorrenza, nel giovane ed ardimentoso maggiore
Toro. Fu dunque dopo gli ardori patriottici ed i cimenti bellici che
il Toro, stabilitosi in Roma verso la fine del '69, poté dedicarsi
interamente all'arte ed accingersi alle note opere che sono: Agostino
Nifo alla Corte di Carlo V., La scomunica di Taddeo da Sessa, La
morte di Pilade Bronzetti a Castelmorrone, e non poche altre minori.
L'Agostino Nifo, specialmente, ebbe gran successo e fu opera
giudicata fra le migliori che figurassero alla Mostra Nazionale di
Napoli del 1877. Mentre il Toro lavorava intorno a questa magnifica
tela, ne visitava lo studio re Umberto, il quale, ammirato di quel
quadro veramente regale, degnavasi disporne una copia per la propria
pinacoteca: e l'opera è oggi tra le più ammirate della Reggia di
Capodimonte. Il Toro invero destinava a S. M. l'originale cui allora
attendeva, eseguendo poi in copia il quadro commessogli dal Comune di
Sessa; circostanza che sollevò una vertenza giudiziaria, risoltasi
poi col pieno riconoscimento dei diritti dell'autore, per quale non
era a trattarsi, è chiaro, di originale e di copia. Questo quadro,
come ho detto, è veramente magnifico, giacché tale lo rendono le
parecchie figure, grandi poco meno del vero, nei serici e smaglianti
abbigliamenti dell'epoca spagnuola, l'atteggiamento e l'espressione,
riuscitissimi, dei due protagonisti - il filosofo e l'imperatore -; i
particolari del fastoso arredamento regale nell'austero salone
dell'imperiale palazzo madrileno. Il soggetto del quadro esalta la
fierezza del grande filosofo ed umanista sessano Agostino Nifo, il
quale, inviato dai suoi concittadini ambasciatore in Ispagna presso
quel monarca - era il tempo della dominazione spagnuola nel
Napoletano - restava a capo coverto e tranquillamente seduto al
cospetto di Carlo V; ed a questi, che apostrofavalo di tanta audacia,
si vuole rispondesse: «Altri imperatori nasceranno, un Nifo mai
più!», E si disse che l'Imperatore, riconoscendo la rude verità,
perdonasse al dottissimo legato dei Sessani. Il Toro dunque,
rievocando la scena voluta dalla tradizione patria, metteva, l'uno di
fronte all'altro i due personaggi: l'uno - l'Imperatore - fiero,
sdegnoso crucciato; l'altro - Nifo - calmo, sereno, sorridente, che
lo guarda in viso, mentre nel gruppo di cortigiani e dignitari che lo
circonda regnano la sorpresa, lo sconcerto, lo scandalo provocato
dell'irriverenza e dall'arroganza di quel dimesso quanto superbo
suddito di Terra du Lavoro... Dal medesimo Comune di Sessa, il quale
- checché ne dicano i critici - fece opera veramente civile e degna
premiando il merito d'un concittadino e destinando al palazzo civico
due superbe opere d'arte, fu data al Toro commissione dell'altro
quadro, Taddeo de Sessa; tale ancora più vasta e grandiosa, che
glorifica anch'essa la gesta d'un cittadino sessano. Il quadro
rappresenta l'interno di una chiesa - il Duomo di Anagni - alla cui
incerta luce si delineano sugli stalli le tante figure paludate e
sinistre degli ecclesiastici che assistono alla scomunica del
ministro di Federico. La solenne cerimonia è al termine, e, mentre i
ceri vanno spegnendosi, due chierici trascinavano fuori del tempio lo
scomunicato che, lacerando le carte della difesa, inveisce contro i
suoi giudici, ribellandosi al papa anatemista.
Più
tardi, incoraggiato dal successo ottenuto con questi due fortunati
quadri, il Toro s'accinge ad opera più grandiosa, qual è la
spettacolosa tela celebrante l'eroico sacrificio del maggiore
garibaldino, Pilade Bronzetti, nella battaglia del I ottobre 1860 a
Castelmorrone
presso
Maddaloni: è l'episodio della morte dell'eroe, dopo che alla testa
dei suoi 200 bersaglieri, aveva questi tenuto fronte ad un'intera
brigata nemica. Il quadro misura circa sei metri di lunghezza per
oltre tre di altezza, e presenta studi notevolissimi di paese e di
figura. Dell'epilogo dell'epica giornata, ricostruito dal Toro, è
esponente il rigido cadavere del Bronzetti, verso il quale, additato
da un villano, si volgono estatici due ufficiali borbonici, compresi
tuttora di ammirazione per la tenace, disperata, sovrumana resistenza
dell'eroico maggiore lombardo, «le cui ossa» - dice l'epigrafe
dettata da M.R. Imbriani pel monumento ai Ponti della Valle -
«aspettano» - ed or diciamo aspettavano - «Trento»... Il campo di
battaglia, disseminato di cadaveri, di armi, d'indumenti; il triste
episodio di cadaveri garibaldini spogliati dai Regi; truppe che
sfilano in lontananza, balenìi di armi agli ultimi raggi di sole,
vapori di fumo di fucileria sull'orizzonte, tutto ciò è tratto con
quella verità e quella coscienza propria di chi del soggetto sia
padrone, di chi, come il nostro artista, a fatti d'armi abbia preso
parte. Ed è così somigliante il volto dell'eroe pur nella
contrazione della morte, pur nella fredda espressione cadaverica
perfettamente resa, che la sorella del Bronzetti, Contessa Arriva
bene, trovatasi in presenza del quadro, non resse, e svenne per
l'impressione riportatane! Degne di nota le vicende di questo
grandiosissimo quadro. Eseguito - s'intende a sezioni per la sua
grande mole - non trovando posto, finito, nello studio dell'artista,
trovava, per sovrana concessione, provvisoria sede nel Real Palazzo
di Caserta, ove restò parecchi anni, dopo fallite le trattative di
acquisto da parte del Comune di Mantova, patria del Bronzetti. La
circostanza, e la considerazione che meritava questo superbo lavoro
artistico e patriottico di Luigi Toro, inducevano frattanto
l'Amministrazione Provinciale di Terra di Lavoro a trattarne
l'acquisto, ma le pratiche dovettero essere sospese quando fu dato
constatare come la tela, per le straordinarie dimensioni, non potesse
essere contenuta in alcuna delle sale del Palazzo della Provincia...
Fu allora che la benemerita Amministrazione Provinciale del tempo
deliberava concedersi al Toro un premio, a titolo d'incoraggiamento,
di lire diecimila. La sorte di questo quadro, di sì difficile
collocamento per la sua grande mole, fu, negli ultimi anni del Toro,
tra le maggiori preoccupazioni dell'artista, il quale dalla vendita
di esso - pare che il quadro da una commissione di artisti fosse
valutato lire quarantamila - si prometteva di poter almeno rifarsi
delle non poche spese affrontate nella esecuzione faticosa, piena di
difficoltà e costata alcuni anni di intenso lavoro! Ma il povero
Toro moriva senza aver visto venduto il suo quadro, il quale, dopo
varie peripezie giudiziarie, trovò finalmente ricetto nel Museo S.
Martino in Napoli, ove è tuttora conservato. L'arte
storico-patriottica trovò un fervente apostolo nel Toro, il quale
produceva nel genere altri importanti lavori, tra cui due tele, a
soggetto garibaldino, acquistate da Casa Reale ed oggi conservate
nella Real Villa di Monza, ed altre due - non saprei dire se
originali o copie delle prime - che ebbi, di recente, occasione di
osservare a Napoli presso l'erede del pittore, la distinta signora
Villa vedova Capogrosso. Altre opere del Toro, tra quelle a me note,
sono: // ministro De Sanctis ai bagni di Suio, Cacciatori in riposo
(in cui è egli stesso raffigurato), Ritratto della moglie (grande
figura al vero), Trebbiatori sull'aria, Studio di mietitori, i
ritratti di re Umberto e della regina Margherita, destinati a Corte
estera, ed altro del primo, eseguito per incarico del Ministro della
Pubblica Istruzione, ed altre molte tele minori.
Luigi
Toro fu artista isolato, individuale, spontaneo; non seguì alcuna
scuola, non ebbe maestri - se togli il Mancinelli, da cui apprese i
primi rudimenti, ed il bergamasco Coghetti, che gli fu per qualche
tempo guida - né ebbe discepoli: «L'arte - egli ripeteva -» non
s'impara: tutto al più il maestro potrebbe ridursi ad un buon
consigliere, ad una buona guida, ed, io, francamente, non ho mai
sentita in me la stoffa d'una buona guida». E ciò egli ripeteva con
quella speciale sua aria, tra bonacciona e trasognata: aria di grande
modestia, di grande semplicità. E se le condizioni economiche di lui
non fossero state quelle che purtroppo erano negli ultimi tempi,
neppure chi scrive lo avrebbe avuto, forse, per qualche anno a
maestro. Come ho detto, Toro non seguì alcuna scuola; non potevano,
del resto, essere scuole ove, a dir vero, mancavan maestri. S'erano
allora tanto imposte le forme accademiche, da far quasi dimenticare
le gloriose scuole italiane e trascurare lo studio della natura e del
vero. L'arte al tempo del Toro, o meglio della produzione artistica
di lui, usciva a pena dal luogo periodo di stasi e di decadenza in
cui l'avevano circoscritta l'accademia e l'imitazione da una parte, e
la negligenza dello studio dei grandi maestri dei secoli andati,
dall'altra. Né si erano ancora affermati nuovi nomi, come del
Morelli e del Palizzi, che dovevano tracciare all'arte pittoricale
nuove vie, delle quali oggi, per leggere di evoluzione, si devia
ancora. Il Toro aveva dunque involontariamente seguito l'arte del suo
tempo e ne aveva coltivato il genere più in voga, lo storico, quale
era coltivato dai maggiori pittori dell'epoca, dal francese Delacroix
in poi; ed il nostro artista, che eseguiva l'ideale d'un'arte
grandiosa, magniloquente, spettacolosa, trovò in quel genere fertile
campo, e ne fu interprete fedele, coscienzioso, minuzioso, studioso
del dettaglio, ricercatore scrupoloso, ligio alle circostanze
ambientali le più minute: ciò che gli conferiva il carattere -
oltre che di pittore - di storico, di indagatore, d'antiquario; tale
infatti si rivela nell'Agostino Nifo, nel Taddeo, in qualche bozzetto
di scena romana. E quest'amore al particolare, al finito,
all'elaborazione del soggetto gli nocque, giacché se difetti si
riscontrano nell'arte di Luigi Toro, sono appunto quelli d'una
eccessiva finitezza, d'un eccessivo particolareggiare, per cui
diventa, come in arte suoi dirsi, manierato ed oleografico; e, per la
soverchia elaborazione, per la sovrapposizione del colore a scopo di
trame un sempre maggiore effetto, per l'insistente pennelleggiare,
legnoso e stoppaccioso, privando il dipinto di sincerità e
freschezza e rivestendolo d'un carattere che sa di stanco, di
stentato, di voluto. E però il Toro cercò, più tardi, rigenerarsi.
Domenico Morelli ed altri degni imitatori, ridestatori di un'arte
assopita e smorta e che formarono la così detta Scuola di Posillipo,
trascinarono all'ammirazione molti altri, i quali, anche tradendo la
propria coscienza artistica, vollero seguire i tempi e rifarsi alla
nuova scuola. Fu così che il Toro, influenzato senza dubbio della
tecnica morelliana, cercò trasformarsi nel Taddeo, usando una
maniera non sua, non sentita, non sincera, e però, dobbiamo pur
dirlo, non fece meglio. Quella tecnica, che voleva essere franca,
disinvolta, spregiudicata, audace, risulta invece falsa, studiata,
priva di quel rendimento che l'autore si prometteva. Quelle figure
trattate col medesimo sistema sia nel primo piano che nel fondo, il
disegno trascurato, lo stento che traspira dal trar voluti effetti,
ed altre non poche mende fanno invano ricercare l'autore del Nifo e
di altre tele minori del primo periodo. Chi queste non abbia viste
nello studio dell'artista, lassù a Lauro ove il Toro era ritornato
dopo vent'anni di lontananza, in quel piccolo tempio dell'arte e di
ricordi, al cospetto dei verdi colli aurunci che al pittore
ricordavano i giovani anni di entusiasmi e di sogno; chi dunque
quelle piccole tele non abbia osservato, mentre le illustrava la voce
lenta e stanza del maestro, non può dire qual fosse la vera arte di
Luigi Toro. Io le vidi, lassù a Lauro, quelle piccole opere
dell'artista; erano macchie, impressioni, bozzetti, studi di figure e
di paesaggio, rievocanti tutta la semplice poesia della terra natia
del pittore: monti degradanti nella gamma di azzurri, casolari
occhieggianti tra l'oro delle mèssi, lembi di terra inondati di
sole, macchie verdi, ombrosi sentieri montani...
E
quanti agresti motivi, quante georgiche scene, passati sotto i miei
occhi, nello studio del Toro, in quell'indimenticabile meriggio della
primavera del '99! Son mietitori seminudi effusi di sole, trebbiatori
a coppie sul tappeto di spighe, contadine dal pittoresco costume
locale danzanti sull'aria nell'estivo tramonto, teste di contadini
adusti; son portatrici d'acqua, lavandaie presso un ruscello,
spigolatrici sotto il sole canicolare, capanne, pagliai, biche,
covoni, tutta la tavolozza smagliante del messidoro italico... Da
quelle tante piccole opere chissà ove andate a finire! - franche,
sincere, semplici come l'animo dell'autore, emerge tutta la
personalità artistica del Toro, la vera, quella che i più ignorano,
che definisce l'artista sotto lo stimolo del sentimento ispiratore,
nella ricerca affannosa di motivi pittorici, esaltanti la fresca
poesia della vergine terra natia...
Come
uomo e come artista il Toro fu semplice, modesto, di un’ingenuità,
direi, infantile; ma diritto, fiero, di carattere adamantino, tempra
già rara, oggi rarissimo, di gentiluomo di vecchio stampo. Perché
intera risalti la figura morale del Toro basta un aneddoto. Si era
con l'artista in compagnia di un alto ufficiale dell'esercito, il
quale, avendo appreso come il Toro rivestisse il grado di colonnello
nella Riserva, volle chiedergli da quando avesse lasciato il
servizio; ed il Toro, cui evidentemente non garbava quella parola
servizio, rispose subito - e fu senza dubbio uno scatto: «Non ho mai
servito» - e scandì la parola - «fui volontario in tempo di
guerra, prima di essere pittore in tempo di pace». Figurarsi come
restasse alla risposta quell'ufficiale abbondantemente gallonato!
Generoso fino all'altruismo più esagerato, il Toro ebbe l'animo
aperto ai più nobili impulsi, ai più elevati sentimenti. Noncurante
d'ogni pericolo, sfidandolo anzi, fidava nella forza della propria
coscienza e del proprio fisico. Queste doti gli procuravano
illimitato rispetto, e la sua maschia figura di gentiluomo franco,
generoso, benefico, coraggioso fino alla temerità, gli ottennero sin
quello dei tristi banditi, che, nei primi anni dopo il '60, gettavano
il terrore nella Provincia, proprio quando .il Toro, nella qualità
di maggiore della Guardia Nazionale, era incaricato, come ho detto,
della repressione del brigantaggio; e da quei mostri di ferocia,
ch'egli sfidava cento volte, non gli fu torto un capello, anche
quando la sua temerità lo spingeva quasi fra essi, i quali poi gli
mandavano all'orecchio come il giorno tale, e l'ora tale, nella
circostanza tal'altra, avrebbero potuto impadronirsi di lui,
vendicarsi, finirlo, ma che, «per rispetto», non lo avrebbe mai
fatto... E che dire delle fatiche e dei rischi ai quali giovinetto il
Toro si esponeva per allenarsi alla vita militare e prepararsi ai
cimenti garibaldini? Oltre alle marce faticose, ai digiuni cui si
assoggettava, alle intemperie alle quali deliberatamente si esponeva,
egli raccontava come fosse tra i suoi consueti esercizi aspergere
d'acqua il pavimento e su di esso, nudo e bagnato, adagiarsi e
passarvi, anche in pieno inverno, la notte... Il forte organismo del
Toro consentiva del resto di tali audacie! Robusto, aitante, dotato
di forza erculea, risoluto, energico, intrepido, il Toro era un
temibile avversario. Per alcuni anni usò andare a passeggio con una
mazza di ferro di parecchi chilogrammi, che egli maneggiava come un
leggero frustino. Dagli amici artisti sopravviventi si ricorda il
pittore Toro per la sua forza muscolare veramente eccezionale. Nel
Circolo Artistico di Roma, in quell'indimenticabile ritrovo di Via
Margutta, il Toro era particolarmente notato ed ammirato per la sua
forza... di toro e per la sua intrepidezza; e quando in quelle sale,
avvinazzato e provocatore, penetrava un notissimo e robustissimo
artista - Èrcole di nome e di fatto - e dico Èrcole Rosa - morto
giovanissimo ma in piena gloria - e tutti i soci presenti
s'affrettavano a svignarsela per sottrarsi alle aggressioni, non
sempre verbali, del forte e bellicoso scultore lombardo, bastava che
comparisse il Toro e gli si avvicinasse sereno e conciliativo perché
il Rosa rinunziasse subito ad ogni... bollore e smettesse quel
contegno provocatore ed aggressivo. E, più che con la forza ed il
coraggio, Luigi Toro disarmava con la sua calma, la sua serenità,
con quella sua aria speciale, bonaria nel contempo ed austera, come
di chi nulla tema, di chi nulla possa e debba temere.
Nell'intimità
Luigi Toro, apparentemente riservato, rigido, burbero, era di una
cordialità e d'una espansione veramente rare, e modesto quanto! Il
maggiore sacrificio ch'egli potesse fare era quello di parlare di sé,
del suo passato, dell'arte sua. Apprendere dal suo labbro qualche
particolare della sua vita era un caso, e ciò avveniva sempre
incidentalmente, direi quasi suo malgrado. Rifuggente da ogni
ostentazione, da ogni convenzionalismo, amava interessarsi alle cose
più semplici e più umili, volendo, con niente filosofica, rendersi
ragione di ogni cosa anche insignificante, curioso talvolta come un
bambino. E come un bambino si divertiva in preferenza allo
spettacolo... delle marionette.
Un
burattinaio capitò un giorno nel villaggio che ospitava il pittore,
e questi volle assistere allo spettacolo e vi si divertì un mondo, e
ne rideva anche dopo, tanto!...
Sentirsi
chiamare col titolo di professore o di cavaliere lo contrariava, e
nel paese che l'ospitava sovente, ove tutti lo chiamavan così,
esclamò un giorno, quasi con rimpianto: «Qui vogliono farmi
insuperbire... A Lauro - era il suo paese - tutti mi chiamano don
Luigi»... E forse, chiamato in tal modo, egli doveva credere ad una
maggiore espansione, ad un maggiore effetto; e forse sentiva la
nostalgia del suo villaggio natio, un tantino selvaggio, un tantino
primitivo ancora, e però, forse, all'artista più caro... Eppure
Luigi Toro, patriota ed artista era stato degnato un tempo della
protezione di Casa Reale, e re Umberto e la regina Margherita ed il
nostro Sovrano, allora giovanissimo Principe di Napoli, ne avevano
visitato a Roma lo studio; e nella capitale aveva goduto l'amicizia e
la considerazione di eminenti personalità, quali il Mancini, lo
Spaventa, il Minghetti, il Rattazzi, il De Sanctis, il Marselli; e
nei sovrani ricevimenti era di frequente ammesso il Toro, al cui lato
rifulgeva la giunonica beltà della sua Clementina, che l'artista
aveva sposato per amore. E quale affetto, quale devozione, direi
ancora quale amore, fino agli ultimi giorni, per questa donna eletta,
colta, bellissima e quanto buona anch'essa! «Se si rinascesse -
esclamò una volta il Toro - risposerei Clementina...».
L'ultima
lettera, che ricevetti dal Maestro, porta la data del 5 aprile del
1900. Mi scriveva: «Carissimo Nicolino, ho inteso con gran piacere
che state tutti bene. Io e Clementina ci eravamo messi un po' in
pensiero pel silenzio, ma poi fortunatamente ebbi la tua. Sabato
mattina, col solito treno, sarò costì per trattenermi un paio di
giorni. Mille affettuosi saluti unitamente alla famiglia anche da
parte di Clementina, e credimi sempre aff.mo amico Luigi Toro». Fu
dunque l'ultima.
Povero
e caro Maestro! Egli venne, sì, come aveva promesso, ma giunse
pallido, infermo, tremante. «Non istò bene» - disse - «sento
tanto freddo!». Ed a noi, preoccupati per lui, egli andava dicendo,
rassicurandoci: «Sarà nulla, passerà...», e, covertosi il capo
col suo fez rosso, sedé al solito posto, accanto alla fiamma
crepitante del caminetto. Ma i brividi della infezione, che ne
scuotevano tutte le fibre, non cessavano, ed il Maestro andò a
letto...
...E
morì quattro giorni dopo!
«Ho
sempre pregato Iddio - egli disse prima di spirare - perché mi
avesse concesso di morire in mezzo agli amici!». E, più che tali,
fratelli e figli, furono quelli che l'assistettero e lo piansero...
Luigi
Toro morì povero: come la più parte degli uomini d'ingegno e di
cuore... Alla sua vita operosa, generosa, benefica, furono premii...
la croce di cavaliere... e i giorni tristi e duri degli ultimi
anni...
Domenico
Morelli, il sommo artista napoletano, così telegrafava alla vedova
accorsa a raccogliere del diletto consorte l'ultimo respiro:
«Apprendo vivissimo dolore perdita suo amato consorte, artista
chiarissimo, amico egregio. Divido angosce suo cuore confortando - La
rassegnarsi memoria caro Estinto. Telegraferò Sindaco rappresentarmi
funerali. Morelli». Ed al Sindaco di Pignataro Maggiore, ove il Toro
si spense, in mia casa, nella mia stanzetta, telegrafò: «Voglia
compiacersi rappresentare questo Regio Istituto Belle Arti e me
personalmente solenni onoranze chiaro artista Luigi Toro. Presidente
Domenico Morelli, Senatore.
E
la parola d'angoscia del sommo Maestro dica qual fosse il lutto della
famiglia artistica, dell'Arte...
E
Pignataro - valga il vero - onorò allora, come meglio poté, il
patriota, l'artista, l'ospite.
Fonte
- Nicola Borrelli
Quando,
or son sei anni, un giovane studente di Cascano di Sessa - il signor
Pasquale Gretta, caduto poi da eroe netta grande guerra -mi richiese,
a scopo di pubblicazione, di qualche notizia intorno alla vita ed
atte opere del pittore L. Toro, fui di ciò assai lieto, sia perché
potevo far cosa grata all'amico, sia perché vedevo lavarsi di una
macchia il nome di Sessa - mia seconda patria -ingenerosa e dimentica
di un suo degnissimo figlio. E, nel gesto vindice di quel
giovanissimo, vidi un richiamo ai concittadini, i quali, senz'alcun
pensiero, lasciavan lontano, inonorate ed abbandonate, le ossa
dell'artista dimenticato... Però all'amico offrii con gioia alcuni
appunti intorno al caro ed illustre scomparso, nella promessa di
dirne più diffusamente io stesso in un'occasione che non vedevo
lontana; ma, poco dopo, il Gretta era chiamato a compiere il supremo
dovere e della pubblicazione nulla seppi, e penso che l'amico non
avesse più il tempo di attendervi. E poiché ancora io devo
soprassedere a dare alle stampe il mio Cenno Biografico di Luigi
Toro, a causa principalmente detta difficoltà nel corredarlo di
necessarie illustrazioni, ho sentito il bisogno di riesumare e
pubblicare, così come al Creila li offrii, i pochi appunti, nel
doppio intento di onorare e la memoria del Maestro e quella non men
cara - del giovane Amico perduto.
Fonte
- Nicola Borrelli
*Da
"Rivista Campana" fase. 4.1921*
Alcune sue opere
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